Luoghi

2aff4a9d67_7594050_med

Ti avrei voluto sorridere, con lo sguardo imbarazzato e le labbra socchiuse, per raccontarti una parte di me, il silenzio.

Avrei voluto perdere l’equilibrio sulle gambe, aggrappandomi solo al tuo profumo.

Ti avrei voluto trattenere, come si afferrano i sospiri. Intensamente.

Ti avrei voluto, potuto, dovuto. Raggiungere. Come quei  desideri da saziare tra le fauci di uno sguardo. E poi mani. Carne senza veli, percorrendosi le arterie fino alle estremità.

Avrei.

E mentre lo ripeto mordendomi le labbra, petali rosei che avresti dovuto mordere tu, penso al condizionale e al giorno in cui mi insegnarono modi e tempi. Oggi che ne conosco le implicazioni e so che quel tempo verbale, io non  lo “avrei” proprio voluto imparare.

Mattino

  
C’è che quando prepari il ragù, lavi le verdure incipriando uno spezzatino e il giorno è ancora mattino, appena dopo l’alba. Quando arrivano scalze in cucina, con i loro biscotti zuccherati sul viso e la loro infanzia su un vassoio di sorrisi, ti senti un po’ tua nonna e un po’ tua mamma la domenica mattina. Così l’aroma di caffè si interseca indelebilmente ai mestoli usati e una macchia d’olio e pomodoro risalta di un tono quell’abito leggero, lasciandoti respirare per un attimo la tua infanzia dall’altra parte di un palco giochi, che il mondo chiama troppo spesso incurante, vita.

L’alba

Le notti che non finiscono sono mattine che iniziano. Il ronzio di un tram in lontananza, le strade che si lasciano percorrere. Calpestare. 

Un uomo grida, 

un bimbo piange. 

Una donna abbassa lo sguardo. 

All’alba bisognerebbe scriversi sulla pelle, senza tutta questa carta; all’alba bisognerebbe ascoltare un “buongiorno” e la morbidezza di un sorriso. L’alba è per i romantici, in un mondo popolato da disillusi, cinici, disinnamorati che in quella luce scorgono solo il principio di una nuova fatica. Il sole fa capolino su un palco di “è già mattina”.

In quell’attimo in cui le percezioni dei romantici si amplificano. In quello stato semi-soporifero che segue il risveglio dei sogni, il tepore di un abbraccio, l’aroma di un buongiorno, il mondo inizia a correre e la gente come me si (sof)ferma.
In bilico tra [Silenzio] e [Rumore], comincio a tratteggiare la polvere di caffè con movimenti cadenzati, familiari, nel calore di un gestualità che conosco.
“Buongiorno mammina”, sguscia dalla sua camera con il pigiamino a righe e il sorriso di chi nel giorno vede la luce. Lascia a terra Pippi, la bambolina con cui dorme, quella che ora chiama Anna, apre le braccia e si appende alle mie gambe. La sollevo, le lascio sbirciare il mondo fuori dalla finestra.
“Guarda amore, c’è il sole.”
“Wow è mattina!”
Si, è finalmente mattina.

Luoghi 

 Una volta, nel mezzo di una favola o forse solo di un bosco, c’ero io.
Io e la mia vulnerabilità. Passeggiavo con gli occhi nel vuoto, credendo di afferrare spazi infiniti con lo sguardo. Inetta. Percorrevo l’assenza di percezione gravitazionale dell’inconsapevolezza. Forse stavo nuotando. La pesantezza era legata alle rocce che avevo intorno; non avvertivo mio corpo, non avvertivo me stessa, ero ciò che non sentivo.
Forse era un mare, non un bosco. Acqua verde e viscosa in cui affondare. E chiusa in quella rete non ero sola, eravamo più pesci all’amo di un unico pescatore.
Che verbo splendido amare, quando viene coniugato al presente della propria vita: io amo. Eppure quell’amo non aveva nulla a che vedere con la profondità di un verbo e le sue coniugazioni. E quel pescatore non aveva nulla di umano in quel vuoto d’amore, in quell’assenza di umanità. Li in fondo, tra opercoli privi di branchie non tutti sembravano accorgersi dell’innaturalezza di una rete in uno dei centri nevralgici della propria individualità. Ogni fessura a molti appariva come una finestra sul mondo. Scorci di libertà per chi fissa un punto senza scorgerne ogni angolazione. Io trattenevo l’aria e fissavo i cordoni, inspirando la mia prigionia.
Raccontami ancora una bugia e fa che sia una bellissima incongruente verità.
“C’era una volta..”
Era una volta o forse solo una svolta, l’averlo compreso.